Vi racconto il concorsone Rai

foto sopra: Twitter @FieraRoma

Ho fatto il mega concorso Rai. Quello per novanta posti per giornalisti nelle sedi regionali. Senza troppa convinzione né aspettative (la domanda l’avevo fatta così tanto tempo fa), ma con la curiosità di vedere questa macchina colossale messa in moto per scegliere novanta persone fra più di 3700 candidati, tutti giornalisti professionisti. Per fare, insomma, “una cosa divertente che non rifarò mai più”, come diceva David Foster Wallace a bordo, improbabile passeggero, di una nave da crociera.

LE SEDI – Così sono andato. Il concorso prevedeva che in fase di domanda si scegliesse una delle sedi disponibili. La Toscana, dove vivo, non era nella lista. E così avevo scelto le Marche. Un po’ perché ho frequentato (ormai vent’anni fa) la scuola di giornalismo a Urbino. Un po’ per tutta una serie di calcoli fatti ai tempi della presentazione della domanda, previsioni che poi si sono rivelate non proprio azzeccate visto che nella Marche alla fine ci sono stati 280 candidati per cinque posti. Entra uno su 57 o giù di là. A essere stato tedesco madrelingua, era senz’altro meglio scegliere Bolzano: anche lì ci sono 5 posti, ma i candidati sono 57. Entra uno su undici. O anche il Molise: lì ci sono sette posti ed entra un candidato su 35. Certo che dopo uno a Campobasso ci deve andare a vivere e, ecco, così sulla carta non so se ero pronto: maledetta ignoranza, io a Campobasso non ci sono manco mai stato e, chi può dirlo, magari la adorerei.

LA PROVA – Comunque, la mattina di sabato 10 mi sono presentato alla Fiera di Roma, sede del concorso. Le misure di sicurezza si annunciavano imponenti. Da giorni si assisteva al martellamento di polemiche, da destra a sinistra: troppo pericoloso – ripetevano in tanti –  radunare tutta quella gente insieme in un momento di contagi del coronavirus in salita. Con le interrogazioni a Conte, Speranza e Martella da parte della senatrice di Forza Italia Modena. E dall’altra parte le sardine a chiedere di fermare tutto (al grido di “il sonno della ragione genera assembramenti”). La Rai replicava di aver organizzato tutto in massima sicurezza, scaglionando orari e ingressi e suddividendo le persone in ben sette padiglioni. E in effetti mi pare di poter testimoniare un grande scrupolo in un’organizzazione senz’altro complessa.

Il mio turno per entrare è alle 10, all’ingresso est. Amici in lizza per altre regioni hanno altri orari e altri ingressi. Mentre vado alla macchina,  nel giardino del b&b dove ho dormito, trovo una collega  pugliese sepolta in libri da cui sbucano post-it e appunti, un ripasso last minute che mi ricorda i compagni di corso all’università che studiavano fino a un secondo prima di entrare all’esame. “Ma se ti dico legge Mammì…”, mi fa. No, ferma, non mi dire nulla, grazie.

Parcheggio vicino alla stazione ferroviaria Nuova Fiera di Roma. Il posteggio è gratuito e fra cumuli di rifiuti, vetri spaccati, preservativi usati non fa proprio una bella impressione. Diciamo che la macchina uno non ce la lascerebbe proprio volentieri normalmente. Ma oggi ci sono due camionette della polizia e anche se sono lì proprio per i giornalisti, magari a uno non gli viene di andare a spaccare i vetri delle macchine con tutti quei poliziotti lì sul piazzale. Un comandante col distintivo al collo istruisce un gruppetto di agenti: “Il problema non è ora, ma quando escono tutti insieme”.

LA LUNGA MARCIA – Sono in anticipo e faccio le cose con calma. C’è qualcosa di strano, di surreale. Colpa del virus, certo. Arrivano a ondate i giornalisti, diversi col treno, qualche altro in taxi, con le navette degli alberghi o qualche pulmino. Ad accoglierli c’è un tipo grassoccio, dotato di megafono. Continua a ripetere di mantenere le distanze e le mascherine su bocca e naso. Altri steward e hostess spuntano qua e là a indirizzare le persone a seconda della regione. “Le Marche? Segui i cartelli, qua alla mia destra: ci sarà un chilometro e mezzo da camminare”. “Ma mi conviene andare con la macchina?” “Fa’ un po’ come te pare: de là per il parcheggio devi pagà”. È presto e decido di accodarmi all’ordinato e distanziato serpentone che si avvia nella stessa direzione: Bolzano, Campania, Friuli, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, indicano i cartelli che punteggiano il lungo percorso. Mi fermo qualche secondo. Un candidato è venuto accompagnato dai genitori, per quanto possa sembrare incredibile. La mamma gli sistema con una mano i capelli, come se fosse il primo giorno di scuola. “Facci sapere subito, eh”, lo congeda preoccupata. Non sono i soli genitori, pare: ne vedo altri due che con l’auto si accodano a una fila di macchine parcheggiate, scambiandola per una coda. Salvo che, dopo un po’ che sono fermi, si insospettiscono e il marito manda la moglie a bussare al vetro della macchina davanti. “A signò, ma che coda? Io sto parcheggiato proprio”.

IN FIERA – Si entra nei cancelli, solito rito dei termometri. Il padiglione per i concorrenti delle Marche si vede a pochi metri ma per arrivarci bisogna passare dentro a un altro dove si percorre, tutti distanziati, un lungo serpentone, tipo quello degli aeroporti, fra barriere e nastri bicolori. Cammini cammini e sei sempre lì in una danza collettiva dove c’è qualcuno che comunque sgomita un po’ per passarti avanti.  Dopo dieci minuti di gimcana si risbuca all’aria aperta, letteralmente a un metro da dove si era entrati. “Scusate, io a un certo punto del concorso devo uscire per allattare il mio bimbo. Posso sospendere la prova e rientrare appena ho fatto?”, chiede una giornalista che dubito possa essere accontentata. Qualche passeggino con altri neonati si vede, però, nell’area concorsi. La mamma dentro il capannone, il babbo fuori col bimbo. Ci sono tanti giovani, ma i capelli bianchi fra i concorrenti non sono per niente pochi, segno di uno stato di salute della professione non proprio ottimale.

Per entrare nel padiglione assegnato si viene invitati a formare due file indiane. Tutti, va detto, sono molto disciplinati. Una hostess sulla porta cerca di facilitare lo smaltimento della coda chiamando ad alta voce “COGNOMI DALLA D ALLA F”. Nelle sue intenzioni si rivolge solo ai primissimi della coda, d’altronde si entra uno per volta per andare ai banchetti dell’accettazione. Ma l’alta voce della ragazza fa credere a quelli in fondo alla fila che sia il loro turno. Così sorpassano tutti e si presentano davanti alla porta. “Eccoci”. Salvo poi essere rimandati in fondo prontamente. In breve diventa una gag. “COGNOMI DALLA M ALLA P”. (Eh? Emme o enne? Non si sente con la mascherina. Ah, ENNE di Napoli). Partenze dalle retrovie. Coro di proteste: “Noo, entra solo uno per volta, solo fra i primi della fila”. Ritorno in coda dei baldanzosi. “E abbassi la voce, signorina, chiami piano sennò non la finiamo più”. Macché. “COGNOMI DA MARI A ROCCHETTI”. Ripartono da dietro, respinti con perdite. “ROSSANO-ZOLI”. Attimo di sconcerto. Qualcuno interpreta quell’intervallo di cognomi come un nome e cognome e protesta: “come mai questo Rossano Zoli lo chiamate singolarmente? Che, è raccomandato?”. Non ne usciamo. Non ne entriamo, più che altro.

LA LITURGIA – Tocca a me. Arrivo al banco dove consegno alla hostess schermata dal plexiglas il documento, ne ricevo in cambio una scheda anagrafica, un foglio di istruzioni e un pennarello nero Giotto, come quelli che usavo alle elementari. Vengo preso in consegna da uno steward che mi porta al posto. Tutto è solenne e algido. Nessuno si può muovere di propria iniziativa. Le voci di fuori arrivano ovattate, dentro c’è silenzio totale. I banchi sono davvero molto distanti gli uni dagli altri, a occhio almeno tre metri. Gli steward e le hostess, con le loro divise scure, si muovono come automi. Arrivano degli annunci dagli altoparlanti. “I responsabili della distribuzione del padiglione 5 comunichino la situazione”. È una liturgia distopica quella che si sta celebrando. Se ti dicessero che sei in un racconto di Orwell o in un scena del film “Il giudizio universale” ci crederesti. Un’atmosfera sospesa, irreale, gesti meccanici del personale, annunci perentori dai megafoni, cortesi ma burocratici come non ti aspetteresti da chi si rivolge a una platea di comunicatori: “… è vietato altresì…. firmate sotto la dicitura firma…”. Le procedure per il virus rendono tutto  straniante: “Per andare in bagno alzate la mano e attendete l’autorizzazione del personale rimanendo seduti”. Una ragazza poco più avanti alza la mano per il bagno, salvo poi riabbassarla frettolosamente quando l’altoparlante chiede che la alzino i volontari disposti a trattenersi dopo la prova per controllare le procedure di correzione. Il candidato davanti a me alza la mano e viene accompagnato verso i bagni. Subito dopo l’annuncio: “Da questo momento non è più possibile alzarsi”. E poco dopo: “Si invita il personale in sala a smaltire le persone ai bagni”. Non si sa che fine faranno. Però quello davanti a me torna, non l’hanno smaltito.

Dal padiglione 3, dove evidentemente c’è il cuore di comando, arrivano i saluti di Marcello Sorgi, presidente del concorso, che non manca di sottolineare come la “Rai, la più grande azienda editoriale italiana, sta facendo uno sforzo unico per assumere persone in questo momento complicato per la professione”. Ci saranno cento domande e cento minuti. Una risposta giusta dà un punto, una sbagliata ne toglie 0,33. Una risposta saltata zero punti. “Al segnale di stop dovrete mettere il pennarello in verticale, pena l’esclusione immediata”. Per far passare il tempo, in attesa che si cominci, decido di prendere alla lettera quell’annuncio e tento di mettere in equilibrio in verticale sul banco il pennarello, senza riuscirci né da un senso né dall’altro. Fortuna che si può finire anche in anticipo, naturalmente alzando la mano e aspettando seduti il personale.

La liturgia prosegue, in vista dell’avvio imminente. Vengono distribuiti i codici a barre. “Il personale è pregato di sanificarsi le mani prima di consegnare i codici ai candidati”. Le squadre di hostess e steward avanzano come vendemmiatori fra i filari di banchi. L’altoparlante annuncia che, sempre al padiglione 3, è stata estratta la prova numero 2 fra le tre opzioni preparate. E che l’orale comincerà dalla Basilicata e dalla Q. Nuovo passaggio di hostess e steward con i questionari cellophanati. Sono una quindicina di fogli, che moltiplicato 3700 concorrenti fa più di 55mila fogli che moltiplicato a sua volta per tre (la prova sorteggiata più le due non selezionate) fa 165mila fogli di carta stampati per questa prova, ciascun pacchetto con il suo cellophane. Un impatto anche ambientale mica da poco, penso.

Mi guardo intorno e siamo davvero tantissimi, anche solo nel mio padiglione. Davanti a me le grandi porte di questo capannone, aperte. Bene, penso, almeno circola aria. Un nuovo annuncio dell’altoparlante mi delude subito. “Chiudete le serrande dei padiglioni”. Meccanicamente e sincronizzate vanno giù, lasciano appena uno spiraglio di un metro. Chissà perché, forse avevano paura che qualche piccione viaggiatore introducesse le soluzioni volando nel padiglione. Del resto là fuori gli uccellini ci sono. E il cinguettio che arriva, amplificato dagli altoparlanti quando viene acceso il microfono e lo speaker sta per parlare, rende l’atmosfera solo un po’ meno asettica di come in realtà si presenta.

LE DOMANDE – Si parte, finalmente. Mi rendo conto che non ho l’orologio, abituato come molti a far affidamento sul cellulare per marcare il tempo. Ma ora non si può, è spento, chiuso nella busta da lettere davanti a me sul banco. Pazienza, mi orienterò a naso. Le domande sono tante e variegate. C’è un po’ di tutto, a volte sa un po’ di quizzone stile Chi vuol esser milionario o Trivial Pursuit. Ci sono domande sulla Costituzione (lo stato di guerra dichiarato dal presidente della Repubblica). Ce ne sono tante su un tema che appassiona sicuramente i giornalisti sindacalisti, ma molto meno me: quelle sul contratto giornalistico, come la questione, fondamentale immagino, su quali siano le feste la cui coincidenza fa sì che si possa spostare la festa del patrono. E poi si va di cultura generale, dalla battaglia di Stalingrado al referendum del 74 sul divorzio. O, ancora, la cronaca con una domanda da versione nera della Settimana enigmistica: abbina le seguenti località ai rispettivi delitti (Avetrana, Brembate, Yara Gambirasio, Sarah Scazzi ecc.). E, ancora, e lì credo di andare forte, ci sono la letteratura e la storia dell’arte: Piero della Francesca, Tiziano, Quasimodo, i futuristi e gli impressionisti. E via con le domande di inglese, con quei “fill in the blanks” con cui non mi cimentavo dai tempi del liceo.

Sullo sport, no, non sono proprio nel mio. E metto la Roma in Champions League (“in quale secolo?”, mi dirà poi un amico romanista quando glielo racconterò).

E poi ci sono i quesiti specifici sulla regione per cui si concorre. E per diversi ti devi essere ingoiato la guida verde del Touring insieme a Wikipedia. Ad esempio, per la domanda sulla città di nascita di Virna Lisi. Me la lascio in fondo, fra quelle su cui sono incerto. Continua a tornarmi in mente il Carosello di cui era protagonista, “con quella bocca può dire ciò che vuole” e per un attimo mi auguro che con quella bocca voglia dirmi semplicemente dov’è nata. Decido di tirare il dado e scelgo Ancona.

Alzo un attimo la testa e vorrei poter accendere il telefono. Non per controllare le risposte che non so, ma per fare un video allo spettacolo che mi si presenta. Gli addetti alla sorveglianza, uno per fila, percorrono le corsie facendo avanti e indietro come fossero vasche di un piscina. Sono tutti coordinati, perfetti, come se si fosse mescolata una gara di stile libero con una di nuoto sincronizzato. Affascinante e inquietante allo stesso tempo. Dall’altoparlante parte un annuncio. “Sono trascorsi cinquanta minuti”, manca solo che dica “Forza!” come Cannavacciuolo a Masterchef. Da questo momento è possibile consegnare. Decido di farlo. Non ho seguito una gran strategia e, anche dove ero incerto, con un breve ragionamento, ho tentato comunque una risposta. Lo so, era meglio lasciarle vuote e prendere 0 punti invece di perderne un terzo in caso di errore. Ma disturbava il mio senso dell’ordine lasciare dei bianchi in quella griglia di pallini anneriti che assomiglia tanto alle schedine del Totocalcio anni Ottanta. Alzo la mano. Una hostess bionda arriva prontamente. “Prenda tutto e mi segua”, mi fa algida. Mi porta al desk dove si riconsegna tutto, pennarello compreso. “Prego, vada, mantenga le distanze e la mascherina”. Esco fuori, c’è ancora il sole. Riaccendo il telefono e la prima cosa che faccio è cercare dove è nata Virna Lisi. È Ancona. Almeno quella è andata.